C’è stato un tempo in cui mi illudevo che le reti sociali rappresentassero un progresso. Un luogo dove pensieri diversi, provenienti da mondi diversi, potessero incontrarsi per giungere a un punto comune. Un confronto sincero, acceso, ma orientato a un’intesa, a una verità condivisa. Quando aprii i miei primi profili sociali (anni e anni fa per poi chiuderli) la visione era questa.
Oggi le reti sociali le definirei invece con il termine campanilismo. Non più uno spazio d’incontro, ma di scontro. Non più ricerca della verità, ma affermazione identitaria ad ogni costo. Ogni gruppo costruisce la propria narrazione, spesso usando contenuti falsi o veri ma estrapolati dal loro contesto, con l’unico scopo di rafforzare la propria posizione. Il contenuto non è più mezzo ma arma e la propaganda è la lingua franca di queste piazze digitali.
Ognuno pensa di saperne più degli altri e va sempre a finire che chi meno ne sa (la maggioranza) pensa di saperne di più e invece chi più ne sa (la minoranza) sa che ha ancora molto da imparare. Non siamo tutti uguali in fondo: non si può partire con le stesse premesse se una persona parte con una vagonata di contenuti da caricare mentre un’altra cerca di essere cauto e prudente. Perché se questa è la realtà, solo chi pubblica contenuti più numerosi e intensi appare ai più come chi ha ragione.
A tutto ciò si è aggiunto l’ingrediente dei soldi perché la possibilità di monetizzare i contenuti tende a spazzare via la spontaneità. Quando ogni parola può tradursi in un guadagno, quest’ultima è a rischio. E così, il contenuto diventa strategico, costruito per ottenere reazioni, non per comunicare un’idea vera. Il coinvolgimento diventa valuta, e con esso si compra l’anima del discorso pubblico.
Quello che però mi ha sconvolto di più è stato scoprire quanto sia semplice, per chi sostiene ideologie violente o persino terroristiche, utilizzare questi spazi con sorprendente libertà. Contenuti che, in una società occidentale che si vuole civile, dovrebbero essere rigettati con fermezza, sia dagli utenti che dalle piattaforme, trovano invece terreno fertile. È come se coloro i quali hanno mano le chiavi delle piattaforme di comunicazione avessero una paralisi del giudizio e la paura profonda di non sembrare democratici.
Per farvi un esempio, che è anche il motivo per cui ho deciso di scrivere questo contenuto, posso mostrarvi questo tweet su X di un certo Fahad Ansari (“avvocato” che vuole far cancellare l’organizzazione terroristica Hamas dalla lista nera in Regno Unito) che domanda al suo pubblico “Quindi, quanto durano le sue mestruazioni attualmente?” riferendosi alla testimonianza di una ragazza tenuta in ostaggio dal gruppo terroristico in questione. Quel contenuto è ancora lì, visibile a tutti. Sia mai rimuoverlo insieme a tutti gli altri! Vorrete mica offendere la democrazia, no?
Immaginatevi, per fare una comparazione, se qualche anno dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 qualche terrorista appartenente al gruppo di al-Qaeda, liberamente circolante nel Regno Unito, avesse scritto un tweet del tipo “Qualcuno ha prove che le persone che si buttavano dalle Torri Gemelle fossero vive? Io non le ho sentite urlare”. Immaginiamo anche questa dichiarazione circolare liberamente in rete, con migliaia di sostenitori che apprezzano e ripubblicano. Siamo esattamente a questo livello con la questione del terrorismo islamico/palestinese.
Allo stesso modo è sempre più inquietante il fatto che alcuni, e troppi, mezzi di comunicazione occidentali diano per scontato le fonti stampa dell’organizzazione terrorstica Hamas che, come sempre, esaltano il numero dei morti (soprattutto se bambini) senza considerare che l’affidibilità di queste persone non solo rasenta lo zero, ma ci scende pure sotto di parecchio. Per fare lo stesso paragone di prima: vi sareste mai immaginati 20 anni fa che i maggiori media occidentali pubblicassero le veline dei talebani o dell’ufficio stampa di Osama Bin Laden? No, ma ora tutto questo sta accadendo in Occidente, perché quando si tratta di Israele forse per qualcuno i terroristi sono degni di credibilità e attenzione.
Questo è un grosso problema, perché mentre nei paesi d’origine di queste persone, il supporto a Israele o alla causa occidentale è vietato se non punito (anzi spesso ne è incoraggiato l’odio), qua il supporto al terrorismo o alla causa islamica è concesso. Mi pare evidente che, con queste regole, loro stanno avanzando perché giocano sempre d’attacco, mentre noi stiamo retrocedendo perché giochiamo sempre di difesa.
Ma io mi chiedo: non è forse questa la degenerazione della democrazia? Quando si mette sullo stesso piano chi difende i valori democratici e chi li vuole distruggere, non stiamo già abdicando alla nostra responsabilità? Il democratismo, cioè quell’atteggiamento che pretende di dare voce a tutti indistintamente, senza più esercitare discernimento, non è altro che una forma caricaturale della democrazia.
Anche l’uso dell’intelligenza artificiale su X, nella forma di Grok, mi è parso deludente. In teoria dovrebbe aiutare a orientarsi, a filtrare meglio i contenuti sia per pertinenza che per veridicità. Ma i filtri proposti non sembrano orientati a renderti l’esperienza più serena. Il risultato? Un’esperienza emotiva e nervosa. Un flusso che accende rabbia, timore, indignazione. Emozioni forti, perfette per tenerti incollato allo schermo e gettare benzina sul fuoco.
E forse è proprio questo il fine ultimo di tutto: provocare, suscitare reazioni e alimentare scontri. Perché ogni scontro genera contenuto, ogni reazione è un dato e ogni dato è moneta. Le reti sociali non cercano verità, cercano traffico. E il traffico si ottiene più facilmente con la cattiveria che con il dialogo.
Resta allora una domanda, a cui nessuno sembra voler rispondere: come può una democrazia, ostaggio del democratismo, difendersi da idee che ne minano le fondamenta? Se non siamo più in grado di tracciare un confine tra ciò che è tollerabile e ciò che non lo è, se ogni parola ha lo stesso peso, se ogni voce ha diritto alla stessa amplificazione, allora forse la democrazia ha già ceduto. E ci resta solo un mercato di opinioni, dove a vincere è chi urla di più. O chi paga di più.
La soluzione forse è quella di metterci una pietra sopra, ammettere che le reti sociali non sono uno strumento per perseguire certi scopi. Per quelli credo siano meglio ambienti più selettivi, moderabili e controllabili per garantirne le qualità.
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